ANCORA UNA STORIA DI VIOLENZA

Di “compagni militanti” abusers e indifferenza nel movimento

A 20 anni, con tutta la rabbia che ero riuscita ad accumulare da quel luglio del 2001, arrivai in una grande metropoli, una di quelle in cui il Movimento c’è e si sente.

Nel pacco da giù mi portavo una relazione tossica e, proprio al culmine della violenza, incontrai la militanza politica.
Da subito mi sembrò un luogo sicuro e confortante, uno spazio in cui l’indifferenza della provincia non avrebbe sommerso ciò che stavo subendo, persone pronte a schierarsi dalla mia parte. Ma poi capii.

Quegli uomini mi erano sembrati così diversi da quello che mi picchiava e da tutti quelli che guardavano e sminuivano, solo perché non erano suoi amici. Quando la fiaccola del violento è passata ad uno di loro, un compagno, improvvisamente nessuno si è proposto per “fargli un discorsetto”. Anzi. Alcuni uomini mi hanno consigliato di accompagnarmi sempre ad altri compagni uomini per andare in manifestazione o alle serate benefit. “Così lui non si avvicina” – dicevano.

Altri uomini cercavano di spiegarmi che lui non aveva gli strumenti perché non aveva ancora compiuto la completa trasformazione in Compagno Militante e non sapeva ancora che certe cose non si fanno.

“Se noi lo abbandoniamo chi glielo spiegherà?”

Alla fine fui io ad andarmene, devastata, e le mie compagne a ripulire tutta la merda che questa vicenda aveva lasciato, dentro e fuori, nei singoli e nella collettività.

Quando mi decisi, diversi anni dopo, a tornare, avevo paura.
Un altro uomo mi disse che non dovevo averne, che lui e i suoi amici avrebbero gestito la cosa. Alle 2 di notte un altro uomo mi portava via dal Centro Sociale perché a causa mia stava scoppiando una rissa che avrebbe messo fine alla serata. “Giancoso si è sbattuto per organizzare”. Il giorno dopo mi chiamo’ una compagna di quel Centro Sociale per dimostrarmi solidarietà.
Tante altre compagne fecero lo stesso, molte senza dirmelo, caricando sui loro corpi il peso di quella vicenda. Peso che con coraggio portarono fino in fondo, fino a sganciarlo addosso a quei compagni come una secchiata di acqua ghiacciata.

Da tutto questo ho capito qualcosa che forse può tornare utile ad altre compagne: l’essere parte di un Movimento non ci esime da un lavoro continuo e costante di messa in critica e decostruzione di noi stessə, come singoli individui e come collettività.

 

La violenza contro le donne è sistemica e trasversale agli spazi, ai tempi, alle classi sociali. Quello che fa più male è sempre, ogni volta, l’indifferenza che le fa da palcoscenico.

Non possiamo controllare le azioni di tutti gli uomini, compagni e non, che conosciamo, e nemmeno educarli (vogliamo l’ennesimo lavoro non pagato?).
Possiamo credere alle donne sempre, anche se non le conosciamo, anche se lui è un nostro amico, fratello, figlio o compagno.