TO REST

Spazi rigenerativi e autodifesa contro la strumentalizzazione della giustizia trasformativa

 

Negli ultimi mesi abbiamo osservato le diverse conseguenze della nascita di ReST e delle storie che abbiamo condiviso. Abbiamo visto nascere una rete di sorellanza, ricevendo testimonianze di chi ha sentito di aver trovato uno spazio sicuro e, a livello nazionale, si è ricominciato a parlare della violenza negli spazi e della costruzione di nuove prassi. Prendere parola pubblicamente ha anche significato, però, assistere a una caccia alle streghe: sono partite vere e proprie indagini da parte di collettive e compagnз per scoprire la nostra identità e l’identità delle persone che hanno denunciato, senza rispettare l’esigenza di sicurezza che ha portato a scegliere l’anonimato. Chiunque ha avuto da dire la sua, chiedendo spiegazioni sulla veridicità e sulla “liceità” della prassi. Ci è stato detto di non aver condiviso abbastanza informazioni, come se per essere credutз fosse necessario fornire i dettagli e fare nome e cognome degli abuser.  

Ci è stato detto, come sempre, che ci sono “altre versioni”. 

Abbiamo visto uomini pronti a dichiararsi alleati parlando per noi, utilizzando le nostre violenze per auto-assolversi in una negazione della pervasività della violenza. Abbiamo letto che creare uno spazio come il nostro equivaleva a sorvegliare e punire“, e che uno strumento come il blog non fosse una pratica concreta, che autodeterminarsi alzando la voce, chiedendo supporto allз compagnз, non rispetta le prassi di sorellanza transfemminista.

Non solo critiche sull’attendibilità delle fonti, ma anche infantilizzazione e annichilimento: siamo statз tacciatз di codardia, di inesperienza, di mancata trasparenza;  siamo statз psichiatrizzatз, additatз come poco credibili; siamo statз accusatз di aver cercato vendetta, punizioni, di aver agito secondo le logiche di competizione e di strumentalizzazione; di esserci inventatз tutto. È stato detto che si sarebbero dovuti attivare percorsi di mediazione interna, di giustizia trasformativa, che così si distruggono le comunità, si mette in cattiva luce il movimento, come se l’obiettivo non dovesse essere l’autodeterminazione dellз survivors ma tenere pulita la faccia delle comunità politiche

Per minimizzare le storie, qualcunə ci ha descritte come mal informatз, affermando che avremmo “sovradeterminato lз survivors” e, cosa triste e paradossale, svelando loro stessз ulteriori casi di violenza di cui non eravamo neanche a conoscenza. In conseguenza di questa dialettica di discredito, con amarezza ma senza sorpresa, abbiamo visto aumentare la mole di vissuti violenti sommersi, quelli ora sì rivelati senza consenso, tutto nel vano tentativo di individuare le singole esperienze raccontate sul blog.

Prendere parola è uno strumento politico potente e non accetteremo che venga strumentalizzato in nome della presunzione di innocenza di chi detiene potere: nominare la violenza è sempre una scelta rischiosa, può essere sofferta e far paura, e non ha niente a che fare con “dispetti”, con il machismo competitivo fra gruppetti o con il misero gossip. 

Perchè nessunə si è chiestə come mai lз compagnз abbiano dovuto scegliere di raccontare quanto accaduto in forma anonima, per tenersi vivз e sicurз? Perché non credere che i tentativi di mediazione fossero già stati fatti – come per altro già detto nelle testimonianze? Perché non credere che rivolgendosi a realtà, collettive e assemblee pre-esistenti, la loro libertà non veniva difesa, ma anzi, ci si ritrovava più a rischio e spesso sotto processo?

Nessuno sguardo critico è stato rivolto a coloro che hanno insabbiato le violenze o a chi non le ha volute vedere. C’è stato solo un triste processo di victim-blaming, che ha messo in discussione i contenuti e le storie pubblicate. La scelta stessa di parlare di call out – assorbita in termini pressoché acritici negli ultimi anni – anziché di presa di parola pubblica sulla violenza subita, sposta l’attenzione su chi agisce violenza e sulla sua immagine da riabilitare, oscurando chi la nomina.

Paradossalmente, sembra che ci si dimentichi che anche i processi trasformativi stessi partono dal parlare della violenza!

Anche se dopo anni, anche se in anonimato, anche se non racconti i dettagli, anche se mi è stato detto che sei pazza: sorella io ti credo. E sorella tu, e solo tu, decidi per te.

Negli ultimi anni, ogni volta che la violenza di genere torna ad abitare quegli spazi che ci illudevamo fossero liberati, ci ritroviamo davanti a un’impalcatura complessa, a volte burocratica, orientata a “gestire” l’ennesimo caso, ma quando chi ha vissuto la violenza decide di difendersi, o addirittura di contrattaccare, ogni respiro, gesto, parola viene messo sotto processo. 

Sembra che ciò che resta dei movimenti politici dal basso trovi sollievo soltanto nella giustizia trasformativa: una soluzione che, in realtà, nasce come alternativa alla giustizia punitiva e repressiva delle istituzioni, e non come unica risposta per ogni forma di violenza. 

È importante sottolineare che spesso nei casi che finora abbiamo pubblicato non era stata espressa, da parte dellз surviviors, il desiderio di un percorso di reinserimento dell’uomo violento anzi, spesso era stato esplicitamente chiesto l’allontanamento: necessità però mai accolta o solo parzialmente, attraverso allontanamenti temporanei, per calmare le acque.

Così, ignorando effettivamente la volontà di chi ha subito la violenza, si viene meno a uno dei principi fondamentali per un percorso di giustizia trasformativa (GT). 

Oltre a quelle del blog, ci sono state riportate esperienze di altrз compagnз che avevano chiesto a tutti gli effetti di attivare percorsi di mediazione e di GT ma che, prima ancora di partire, si sono scontratз con spazi che hanno negato la violenza e lз hanno allontanatз, oppure che hanno “applicato” la GT secondo l’interpretazione più comoda al caso, finendo per accettare sempre di più le richieste dell’abuser, eterno protagonista dello spazio in cui si sarebbe dovuto mettere in discussione.

Viene meno, quindi, un altro principio: una reale presa di coscienza e di responsabilità da parte dell’uomo violento e dello spazio che lo accoglie.

Lo sguardo rimane incentrato ancora una volta sull’uomo, sulla sua perpetua richiesta di cura, lasciando sulle spalle delle compagne la responsabilità di “rieducare” il maschio.

Non si mette in discussione il contesto di partenza e la comunità si ripiega su se stessa, in una strenua difesa dell’immagine di sé: senza mettere al centro la riappropriazione della scelta di chi ha subito, non ci potrà mai essere reale responsabilizzazione e cura collettiva.

Senza rendercene conto, per l’ennesima volta, la persona a cui viene inflitta violenza finisce in secondo piano e a rimanere preservato è il rapporto di potere preesistente, di natura patriarcale e gerarchica.

I nostri spazi, con buona pace del loro desiderio di liberazione, diventano luoghi di addomesticazione patriarcale, dove ci si attiene ad analisi retoriche e promesse. 

Noi crediamo che la GT non sia e non possa essere l’orizzonte unico del transfemminismo e non intendiamo in alcun modo rispettare i paletti di percorsi di reinserimento (e ancora di più di reinserimento immediato), che attualmente hanno generato consenso soltanto perché consentono di ripulire la reputazione delle comunità.

Abbiamo costruito prassi transfemministe oppure abbiamo soltanto steso la tovaglia fucsia sulla tavola imbandita nella casa occupata dei maschi del movimento? Trovandoci con il loro lavoro di decostruzione sulle spalle come piatti sporchi a fine pasto? 

Possiamo davvero pensare di traslare la nostra liberazione, di donne e soggettività femminilizzate, in quella che diventa una riproduzione imposta del ruolo di cura costante? 

Perché rivendichiamo la violenza politica quando questa incarna l’idea di autodifesa transfemminista ma, quando si tratta di alzare la voce sulle violenze negli spazi di movimento, invitiamo tutte le presenti in sala a stare sedute composte e a comportarsi in maniera ponderata e adeguata?

Queste sono le domande che poniamo e che ci stanno accompagnando in ogni passo di questo percorso, in cui ci proponiamo di essere megafono, di raccogliere e accogliere le voci che sono state silenziate e nascoste fino ad ora.

Abbiamo bisogno di ripartire da noi, di concentrarci di nuovo su ciò che può dare più concretezza alla nostra liberazione, di esplorare i mille strumenti che abbiamo a disposizione, di creare spazi di rigenerazione: to “rest”

Speriamo che questa Rete Sotterranea Transfemminista possa essere una tappa di un percorso di consapevolezza collettiva, in uno scenario politico che fin troppo spesso si accontenta di lasciare indietro chi ha vissuto violenza, dove la cura spesso si riserva agli abuser, e dove la parola rete sembra aver assunto la forma di una gabbia e non di un supporto.

-ReST