PARLIAMO DI NUOVO DI METODO

Vogliamo riprendere parola per ribadire alcuni punti che riteniamo fondamentali per la costruzione di uno spazio di condivisione sicuro, di supporto e di cura.
A grande richiesta, quindi, ecco a voi il listone patriarcale ovvero le frasi che abbiamo sentito ripetere senza soluzione di continuità da “compagnз” che volevano ricordarci come si parla delle violenze subite, o meglio come “stare al nostro posto”.

        

# 1. “‘Sorella, io ti crederei, ma quello è il
Dopo anni di sforzi sappiamo tuttз che la violenza di genere è strutturale e permea in maniera capillare le nostre vite… tranne quando è il compagno con cui ci facciamo le birre: lui no, lui non potrebbe mai. Figuriamoci, è un caro compagno, ha dato pure una mano a mia zia a cambiare la caldaia, non potrebbe mai agire violenza ai danni di una compagna! L’hai vista la sua libreria? Ha letto tutta la bibliografia da compagno decostruito TM!
Quindi niente, sorella, stavolta non ti credo. La prossima volta, fatti agire violenza da uno che non è amico nostro, che può diventare il mostro perfetto permettendo a tuttз noi di autoassolverci; uno che ci sta scomodo nel collettivo e che vorremmo cacciare già da un po’; uno che non ci serve a portare avanti l’egemonia in città. Così, sorella, ci metti proprio in difficoltà.
# 2. Autrici di narrativa fantascientifica
“Ok, riconosciamo che la violenza è strutturale ed è ovunque, ammettiamo di avere qualche problemuccio (perché in fondo siamo cresciutз tuttз in un mondo patriarcale, lo sappiamo), ma questa storia non è vera. Ero lì, ero presente giuro! E te lo posso assicurare: non è mai accaduto, si è inventata tutto la ReST“. 
Spoiler: tutte le testimonianze sono state inviate dallз direttз interessatз e non sono state scritte da chi ricondivide le storie sul blog.
Dopo aver ripetuto per anni che la violenza non si ferma ai confini del “movimento”, non riusciamo a capacitarci non solo di violenze interne, ma di coperture e connivenze croniche.
Eccezionale quindi che qualcunə abbia deciso per se stessə, secondo la sua volontà, di agire e usare la rete sotterranea come megafono, portando l’attenzione sull’esperienza subita all’interno di collettivi, spazi sociali e del sedicente movimento.
Chiariamolo una buona volta: ogni ricondivisione deriva e deriverà sempre e solo dalla richiesta libera, esplicita, informata, consapevole, volontaria e quindi necessariamente consensuale, di chi ha deciso di prendere parola e rendere noto il proprio vissuto scientemente silenziato negli spazi di movimento.
# 3.  Il mandato 
Notabile variazione del “parlate senza autorizzazione” e del “ti sei inventata tutto” (ormai un po’ âgée dopo questa quarta ondata di femminismo).
“E’ vero che le violenze ci sono state, ma colei che le ha subite è stata sovradeterminata signor giudice! E i fatti sono stati condivisi senza il suo consenso!! Qui manca il mandato!
La buttiamo lì: può essere che oltre alla violenza di cui siete a conoscenza e che non voleva essere assolutamente condivisama di cui per un bizzarro incrocio astrale non si fa altro che parlare – c’è ALMENO un’altra violenza di cui lə protagonistə, invece, voleva parlare?
Invisibilizzare una violenza con un triste tentativo di distrazione dal problema reale e concreto, serve solo come espediente per negare o non affrontare quanto raccontato da unə sorella. Il consenso è stato violato solo da voi, con goffi tentativi di infangare chi prova a liberarsi.
# 4. Il quadro probatorio
“Insomma sorella, tu vuoi essere creduta ma qui, senza prove sul tavolo, come facciamo?”
Con buona pace delle retoriche anticarcerarie, spesso usate strumentalmente per delegittimare la presa di parola sulle violenze subite, è lə compagnə che ha subito a finire al banco degli imputati. Il connubio patriarcale e quello giudiziario si fondono perfettamente in un’ottica punitiva nei confronti di chi decide di parlare, se il maltrattante in questione è utile nell’economia del gruppo politico di turno. Mentre ci stracciamo le vesti invocando la giustizia trasformativa, assistiamo a una profonda interiorizzazione del sistema penale, assolvendo chi ha potere e condannando chi non ne ha.
Si viene così sottopostз a un costante scrutinio: un modo subdolo per relegarci in un’area di iperperfezionismo giustificativo. 
“Bisogna sempre essere impeccabile: mai alzare la voce, mai mostrare dubbi. Semmai con un tono più dimesso, compagnə, altrimenti la violenta sei tu. Devi essere credibile, compagnə, agli occhi di tuttз, anche di chi è qui solo per screditarti. Nervi saldi compagnə.”
Ma in fondo avete ragione: perché cercare di creare uno spazio che faccia sentire più sicurз lз compagnз che alzano la voce, quando è molto più semplice chiudersi nella propria bolla, spendere notevoli energie per difendere l’abuser e la credibilità del proprio collettivo?!
Le assemblee di movimento non sono il valico attraverso cui unə compagnə deve passare per essere ritenutə credibilə. Le assemblee, i partiti, i gruppi informali non saranno per noi luoghi di validazione e ci rifiutiamo di subire forme di controllo o di potere, che siano dettate da dinamiche amicali o per convenienza meramente politica.
Siamo certз di quanto ci viene raccontato, siamo sicurз della metodologia e del rispetto del consenso con cui condividiamo, e non cerchiamo approvazione da nessun compagno né tanto meno da nessuna sigla.
Sorella noi ti crediamo deve essere una pratica concreta e radicale, non un mantra vuoto né un tribunale che richiede prove e documentazioni. Non ci stancheremo mai di ripeterlo.
# 5. Quale metodo? O anche “V per Vendetta”
“Sorella io ti credo, giuro ti credo, e vorrei anche aiutarti però tu hai sbagliato i modi, capisci? E io ora come faccio a stare dalla tua parte? Insomma sorella, rassegnati! Se prendi parola sulle violenze subite, di sicuro qualche tua mossa sarà bollata come sbagliata, esagerata, troppo vendicativa, non abbastanza trasformativa. E al compagno che ha agito violenza non ci pensi, eh? Gli stai rovinando la vita, non temi che possa farsi del male a causa tua, eh, eh?!
La retorica sulla metodologia “giusta” e sulle pratiche “giuste” non è finalizzata a creare contesti safer per supportare chi ha subito dando spazio alla sua volontà, tutt’altro. Ad oggi, questa narrazione è stata utile soltanto a silenziare lз compagnз che denunciano e chi prova a supportarle.
Triste constatare, al termine di questa ondata, che ormai serva una lettera protocollata per parlare di una violenza subita nei nostri contesti. 
Scimmiottando lo stato, si iperburocratizza ogni forma di relazione, corroborando i rapporti di asimmetria strutturale e di potere esistenti. Perciò allз compagnз in ascolto diciamo di essere prontз, perché con questo espediente retorico probabilmente vi ritroverete a “confrontarvi” con persone che fanno costantemente tone policing, che provano a manipolare e a fare gaslighting, se non addirittura farvi ritrattare quanto detto! Assisterete a una costante strumentalizzazione del tema della giustizia trasformativa: ironicamente, in questa narrazione ci si dimentica che per dare vita a percorsi trasformativi il primo passo  è proprio raccontare la violenza! È evidente infatti che per iniziare un percorso di reale consapevolezza con l’abuser, si debba partire dal riconoscimento dei suoi agiti specifici, capire come la violenza si sia innestata nelle sue specifiche modalità relazionaliSe non emerge la violenza agita, come si può pensare anche solo di iniziare un percorso di questo genere? 
In questo tripudio di paradossi, l’autore della violenza diventa la vittima dellə “violentissimə” compagnə che ha deciso di parlare e che, per aver semplicemente raccontato quanto accaduto, si trasforma in unə terribile carnefice. 
Se nominare la violenza, avendo cura di tutelarsi su ogni piano, viene etichettato come “vendetta”, se è questo quello di cui tanto ci avete accusato, banalizzando una pratica cardine del femminismo atta a sottrarre la violenza di genere alla invisibilizzazione strutturale a cui è rilegata, allora sì, chiamatela pure vendetta se vi fa comodo: continueremo a farlo.
Non ci sentiremo né in colpa né in difetto se la nostra liberazione crea un disequilibrio politico: preferiamo vedere rovinate false alleanze che continuare a recitare il copione del movimento “perfetto”. Siamo fierз di aver creato uno squarcio, fierз anche di essere “cattivз“. Rovina famiglie e rovina “movimento”. 
# 6. Il martirio
“Bisogna prendersi la responsabilità di parlare in assemblea.
Colei che ha subito, dunque, deve farsi carico di parlare davanti a tuttз di ciò che ha vissuto, a costo di subire alla peggio un processo o, alla meglio, di vivere un’esperienza estremamente ritraumatizzante. In caso contrario non si è credibili. 
E dopo domande insistenti, emarginazione crescente, fantomatici percorsi, te lo ritrovi lì, dove è sempre stato, con lacrime da coccodrillo e nessuna intenzione di concederti spazio o di cambiare i propri atteggiamenti. Oltretutto, si perpetua il binarismo patriarcale del lavoro di cura (del maschio violento di turno ma anche della comunità intera) sulle spalle di chi ha subito, con una sottile ma onnipresente (e cristianissima!) idea di colpa per aver scombinato la comunità. 
Incredibile che lз compagnз non si sentano a loro agio a parlarne davanti ad una platea ostile e spesso connivente con il maschio violento di turno, no?
E quindi lз nostrз compagnз si ritrovano accerchiatз, tra chi sparisce, chi finge di supportare, chi prova a delegittimare, chi richiede prove, chi vuole mille informazioni, chi continua a iperresponsabilizzarla chiedendo istruzioni ad ogni passo, quando forse quello che servirebbe è un po’ di tempo per sé, una vicinanza concreta e riposo dal carico mentale ed emotivo!
# 7. Quale cura?
“Devi avere cura nei confronti della collettività, dell’assemblea, della persona che ti ha inflitto il danno, capisci? Quella stessa che tu non hai ricevuto, sorella.
La cura ormai è stata sottratta del suo significato originario e dirompente, diventando un termine vuoto e posticcio, spesso a sua volta strumentalizzato. Così, parlando di ciò che si è subito, ribellandosi a prevaricazioni e a violenze, si finisce ad essere accusate di avere “poca cura”. Daje de gaslighting e manipolazione! 
Prendersi cura, in termini femministi, non vuol dire piegarsi al ruolo di subalternità a cui veniamo relegate strutturalmente, ma condividere responsabilità e redistribuirne il carico collettivamente. Cura non è un lavoro gratuito e automatizzato, né tanto meno un nostro dovere indistinto verso chiunque. Non vogliamo fare il lavoro di decostruzione per la marmaglia di maschi del movimento e delle figlie di papà (citando Valerie Solanas) che li difendono
Riteniamo invece prioritario prenderci cura di noi stessз e dellз compagnз che per anni sono statз silenziatз.
I percorsi di giustizia trasformativa saranno possibili quando sarà chiaro che la violenza del movimento è una responsabilità di chi la esercita e di chi la vuole nascondere, non certo di chi la nomina. Percorsi che non devono stare sulle spalle delle solite persone che si ritrovano ad accollarsi tutte le fratture, il dolore e le rimozioni della comunità, ma essere davvero condivisi. Quale trasformazione ci sarebbe, altrimenti, nel ricondurci sempre nel ruolo di brave educande o di materne figure di riferimento? 
Percorsi di gt, come già abbiamo detto, che devono essere messi in campo se chi ha subito decide di intraprendere questa strada, e non estorti dalla comunità attraverso pressioni.
Ci dispiace per l’eredità cattolica insita nel movimento, ma non ci sarà senso di colpa per le scelte politiche fatte, al contrario ci sentiremo felicemente e finalmente egoistз e in un luogo sicuro.
# 8. Scazzi di movimento
“Così non si fa altro che alimentare scazzi tra collettivi, in un momento di bassa come questo poi, ma non ci ricordiamo chi è il vero nemico?” 
Oltre a paragonarci a un’operazione della CIA, in questi mesi abbiamo visto associare il prendere parola sulle esperienze di violenza a “scazzi tra collettivi”, riconducendo il racconto delle violenze a una stupida ed inutile logica di corsa al potere egemonica dai tratti machisti.
Ogni presa di parola diventa quindi un complotto ai danni di un collettivo, di un’area, di una realtà organizzata, di quelli che alla fine sono i nostri compagni“.
No, gli uomini violenti e chi li protegge non sono nostri compagni: non scambiamo il pane con chi mina la nostra liberazione, neanche per una vaga idea di rivoluzione
E vi riveleremo un fatto sconcertante: non c’è nulla di speciale in un gruppo politico rispetto a un altro. Comunisti, anarchici, riformisti, disobbedienti, ecologisti, squatters, sindacalisti, antirazzisti, compagni decostruiti, ambienti queer, punk, teknusi, antispecisti: le storie sono sempre le stesse. Del resto, lo dicevano già le nostre sorelle negli anni ’70: compagni in sezione, fascisti a letto. E quando si trattava della nostra liberazione, nemmeno nello spazio pubblico!
Pur di non venire mai a patti con quanto avviene quotidianamente nelle nostre comunità umane e politiche, assistiamo a un benaltrismo degno di un distratto commentatore su fb: e allora Gaza? e allora le carceri? e allora la lotta per la casa? e allora e allora… 
Che amarezza constatare quanto siamo statз solidalз con loro, quanto abbiamo creduto alle loro parole nelle piazze e nelle strade, pensando di avere una lotta comune, e quanto siano statз poco solidali con noi, questз carз compagnз. Del resto il recente disgustoso “dibattito” (davvero originale per altro!) portato avanti da virili compagni anarchici ci ricorda quanto i nostri ambienti, qualsiasi siano le prospettive politiche, spesso non siano altro che banali e ordinarie comunità terribili.
# 9. Scarafagge
“Devono essere per forza quelle là che fanno sempre polemica in assemblea. Come si permettono a rovinare la vita delle persone?!”
Ci dispiace per chiunque sia statə scambiatə per noi, venendo colpitə da insulti, pressioni, se non veri e propri interrogatori, che volevano essere rivolte al cerchio di questa rete. Ancora una volta questa è la dimostrazione di ciò che stiamo cercando di denunciare.
La scelta dell’anonimato ci tutela e ci permette di osservare molto chiaramente le storture e i sotterfugi di un movimento che si muove per logiche di convenienza, connivenza politica ed apparenza. Ci rivendichiamo l’anonimato, fatevene una ragione. La nostra è una scelta politica consapevole ed è una tutela per tuttз lз compagnз che hanno voluto parlare e che continueranno a farlo.
La caccia alle streghe non è mai finita, ha solo cambiato veste. Non ci faremo scoraggiare da inutili pressioni esterne né dal giogo dell’infantilizzazione di cui siamo statз oggetto. La vergogna deve cambiare lato, in qualsiasi forma unə compagnə decida di denunciare una violenza subita.
Alle accuse rispondiamo andando avanti per la strada che abbiamo scelto. Ed è solo l’inizio.

– ReST