Attivistз come carne da macello: quante altre gabbie per la lotta antispecista? Activists as cannon fodder: how many more cages for the anti-speciesist struggle?

(IT version) Sulla cooptazione delle lotte dal basso da parte delle associazioni animaliste

Questo scritto nasce ed è mosso, e lo immagino muoversi nel tempo e nello spazio, grazie a due sentimenti: la rabbia e l’amore.

L’amore, profondo e viscerale, per la lotta di liberazione animale. Una lotta che, per me, significa rifiuto delle strutture di potere che opprimono lз compagnз non umanз, che mi spingono a stare al loro fianco nei luoghi di morte e di degrado e a gioire con loro in quelli di liberazione.

La rabbia nasce, invece, come strumento di motore in risposta all’indignazione profonda che provo nel vedere questa stessa lotta svenduta a pochi cents, degradata per mano di un sistema di cooptazione ai limiti del turbocapitalismo, che tutto mangia e tutto ingloba.

Se è già noto che la lotta di liberazione animale, come altre lotte, è stata già ridotta a merce e fagocitata dal sistema capitalista, continuo, forse ingenuamente, a stupirmi delle cecità a cui vedo abbandonarsi moltз attivistз antispecistз che oggi barattano la radicalità per una fetta di visibilità.

La profonda differenza che esiste tra welfarismo e liberazione animale non può né potrà mai essere negata da nessun washing, o meglio ancora, da nessuna “mescolanza”.

E chiariamolo fin dall’inizio: non si sta qui parlando di negare le alleanze. Siamo francamente stufз di nasconderci dietro alla retorica per cui occorra necessariamente allearsi per raggiungere l’obiettivo (e quale obiettivo? ndr). Stare fianco a fianco di chi replica modelli che desideriamo combattere, diciamocelo una volta per tutte, significa lavorare per l’oppressore.

L’aziendalizzazione della lotta dirotta le istanze di liberazione totale verso l’accondiscendenza alle stesse strutture di dominio che opprimono animalз umanз e non, replicandole e non creando nessuna frattura reale.

Questa replica, basata sulla designazione di cariche e la promozione di relazioni basate sullo scambio economico, falsa l’afflusso del pensiero divergente: se cerchiamo l’orizzontalità come modello, chiamare un compagno “direttore” dovrebbe farci accapponare la pelle.

Da antispecista, non posso che constatare con amarezza che, mentre miriamo a distruggere ogni gabbia, siamo finitз a chiamare “direttore” chi avrebbe dovuto essere “compagnə”.

Contrariamente alle tradizionali impostazioni dall’alto verso il basso, gli spazi orizzontali ci rendono più liberз perché non dobbiamo sottoporre le nostre decisioni a processi di ratifica ed approvazione di un padrone, proprio come succede nelle strutture di potere capitaliste, fasciste e socialiste.

E posto che la mia agency non dipende dall’approvazione altrui, aspiro sinceramente a vivere senza gerarchie e senza coercizione alcuna. Ci pensa già il lavoro del capitale a rendermi schiava.

Dovremmo piuttosto essere motivatз da un desiderio e una lealtà condivise, e non dal profitto, dal dovere o da qualsiasi altro compenso o astrazione.

Come comunità antispecista ci chiediamo spesso nei nostri scambi colloquiali se sia possibile mantenere la nostra lotta alla radicalità da cui è nata. La liberazione animale non è un prodotto da vendere sui social, non è un brand, non è una corsa ai followers o alla story che possa attirare più audience. Sinceramente? Nemmeno se questo comporta avere più fondi per le vostre campagne, perché sono soldi che puzzano di privilegio.

Le tattiche possono avere un senso quando sono condivise, le decisioni hanno un senso se sono collettive, una comunità può dirsi tale quando ognunə può esprimersi con lo stesso grado di ascolto e senza il timore di essere emarginato perché già in partenza con meno potere. Offrire opportunità, soldi e contratti a chi si allinea ed emarginare invece chi non incarna un modello preconfezionato significa creare barriere all’ingresso, fare proselitismo, chiudere i cerchi.

Come è possibile che alcun attivistз nel mondo antispecista non si rendano conto che è proprio il sistema che vorremmo combattere a trasformarci in brand duellanti, riducendoci a un ennesimo ”tweet”, a un marchio sulla maglietta da esibire sennosiamaichesuccede!

Mi pare superfluo dire che il veganwashing e la propaganda di sinistra pro-LGBT non hanno mai spostato niente: il sistema va questionato e distrutto, non accarezzato nei luoghi istituzionali o addirittura replicato nei nostri spazi.

Indossa la nostra maglietta” “Non mettere il berretto” Vestiti di nero” “Portami un caffè” Non bere” Non usare sostanze Passa il megafono solo a chi obbedisce”. Per carità!

Che sia chiaro una volta per tutte: un brand non potrà mai essere una politica collettiva condivisibile; la professionalità (in termini imprenditoriali) di un attivistə non può essere un valore da perseguire, ancor meno mediante l’estetica, il marketing, o codici di comportamento imposti.

Il proibizionismo e la sorveglianza, poi, lasciamoli allo Stato, per cortesia. Che la polizia è già troppa in giro.

E vorreste spacciarvi pure per gente che fa la rivoluzione?
No, mi dispiace informarvi che non stiamo dallo stesso lato della barricata.

Dovremmo, se fossimo una comunità, impegnarci a non idealizzare o mettere qualcunə (o, come più spesso accade, auto-posizionarci) su un piedistallo o, più precisamente, a favore di camera.

In questi ultimi mesi ho assistito a clientelismo, servilismo e nonnismo nel mondo animalista degni della politica istituzionale: un vero schiaffo per chi cerca nella lotta antispecista uno spazio di ribellione.

Quante altre gabbie si creano usando lз attivistз come carne da macello, come un numero, come qualcosa che si può vendere, posizionare e spostare, di cui si può comprare addirittura il silenzio?

Mi fanno paura le organizzazioni che hanno il timore di essere destabilizzate e scompigliate. Nascondono – e nemmeno troppo velatamente – un odio per la dissidenza che rivela, in realtà, un grande timore per l’introspezione onesta.

Mi fanno paura le associazioni che “dialogano” con la politica istituzionale millantando di voler migliorare le cose “da dentro” ma sedendosi comodamente in poltrona appena ce n’è l’occasione. Che affanno in questi luoghi di potere, eh?

Possiamo scegliere come organizzarci, senza dover per forza entrare a far parte di un’istituzione preesistente e prendere ordini. Organizzarsi non dovrebbe significare rinunciare alla nostra intelligenza e senso critico per diventare gli ingranaggi di una macchina. Da un punto di vista libertario, la struttura organizzativa dovrebbe massimizzare la libertà e il coordinamento volontario a qualunque livello, senza “pass” più o meno dichiarati alla partecipazione dellз attivistз.

Se non ci è permesso questionare le logiche organizzative, perché l’aziendalizzazione è anche privatizzazione, allora voglio questionarle qui ed ora con questo scritto, perché la lotta di liberazione animale è una questione politica e dunque pubblica.  E sì, lo è anche se avete trasformato la lotta in lavoro privato.

L’immaginazione radicale è l’unico strumento che mi resta per una liberazione reale.

Questo testo, quindi, è un invito allз attivistз che proclamano di credere nella lotta dal basso, a non invocare solo la radicalità, ma a praticarla unendosi sulla base delle affinità.

E se proprio vi siete ritrova nel girone infernale di certe associazioni, eccovi un caloroso invito a questionare chi avete intorno sul se in passato abbia mai comprato il silenzio di qualcunə, lo abbia allontanato illegittimamente o abbia imbastito documenti legali per costringerlə a non rivelare fatti e accadimenti di cui evidentemente non è ammesso parlare. Probabilmente scoprirete cose interessanti.

Non ho il privilegio di poter fare nomi o pagare avvocat3, ma solo spazi molto meno illuminati da cui provare a non restare mai in silenzio.

Per questo ho deciso di affidare questo testo alla ReST, che prende parola sulle dinamiche tossiche negli spazi di movimento.

Con amore e rabbia, una compagna antispecista e anarchica

 

(ENG version)  On the cooptation of the grassoroots struggles by animal-rights associations

This writing is born and is moved, and I imagine it moving through time and space, thanks to two feelings: anger and love.

The deep and visceral love for the animal liberation struggle.
A struggle that, for me, means rejecting the power structures that oppress nonhuman comrades, which push me to stand alongside them in places of death and degradation and to rejoice with them in places of liberation.

The anger, on the other hand, arises as a driving force in response to the profound indignation I feel at seeing this same struggle sold off for a few cents, degraded by a system of cooptation bordering on turbocapitalism, which consumes and absorbs everything.

While it is already known that the struggle for animal liberation, like other struggles, has already been reduced to a commodity and swallowed up by the capitalist system, I continue, perhaps naively, to be amazed by the blindness to which I see so many anti-speciesist activists abandoning themselves, who today trade radicalism for a slice of visibility.

The profound difference between welfare and animal liberation cannot and will never be denied by any form of “washing“, or better yet, by any “mixing.

And let’s be clear from the outset: we’re not talking about denying alliances here. We’re frankly tired of hiding behind the rhetoric that alliances are necessary to achieve the goal (and what kind of goal? Ed.). Standing side by side with those who replicate the models we wish to fight, let’s face it once and for all, means working for the oppressor.

The corporatization of the struggle diverts the demands for total liberation towards compliance with the same power structures that oppress animals, both human and not human, replicating them and creating no real fracture.

This repetition, based on the appointment of positions and the promotion of relationships based on economic exchange, distorts the influx of divergent thinking: if we seek horizontality as a model, calling a comrade “director” should make our skin crawl.

As an anti-speciesist, I can only notice with bitterness that, while we aim to destroy every cage, we have ended up calling “director” those who should have been “comrades.

Contrary to traditional top-down approaches, horizontal spaces give us more freedom because we don’t have to subject our decisions to processes of ratification and approval from a master, just as happens in capitalist, fascist, and socialist power structures.

And given that my agency does not depend on the approval of others, I honestly aspire to live without hierarchies and without any coercion.

Capital’s work already enslaves me enough.

Rather, we should be motivated by a shared desire and loyalty, not by profit, duty, or any other reward or abstraction.

As an anti-speciesist community, we often ask ourselves in our conversations whether it’s possible to maintain the radicalism from which our struggle was born. Animal liberation isn’t a product to be sold on social media, it’s not a brand, it’s not a race for followers or an instagram story that can attract a larger audience.

Honestly? Not even if that means more funding for your campaigns, because that money reeks of privilege.

Tactics can make sense when shared, decisions make sense when collective, and a community can be considered such when everyone can express themselves with equal listening and without the fear of being marginalized because they already have less power to begin with.

Offering opportunities, money, and contracts to those who fall into line while marginalizing those who don’t embody a prepackaged model means creating barriers to entry, proselytizing, and closing loops.

How is it possible that some activists in the anti-speciesist world don’t realize that it’s the very system we seek to fight that turns us into dueling brands, reducing us to yet another “tweet,” a brand on a T-shirt to be displayed otherwise ohmyGodwhathappens?

It seems superfluous to me to say that veganwashing and left-wing pro-LGBT propaganda have never moved anything: the system must be questioned and destroyed, not caressed in institutional halls or even replied in our places.

Wear our T-shirt” “don’t wear a cap” “dress in black” “bring me a coffee” “don’t drink” “don’t use drugs” “only pass the megaphone to those who obey” For goodness sake!

Let’s be clear once and for all: a brand can never be a shared collective policy; the professionalism (in entrepreneurial terms) of an activist cannot be a value to be pursued, even less so through aesthetics, marketing, or imposed codes of conduct.

As for prohibition and surveillance, please leave them to the State. There’s already too much police around.

And you also want to pass yourselves off as revolutionaries?

No, I’m sorry to inform you that we’re not on the same side of the fence.

We should, if we were a community, commit to not idealizing or putting anyone (or, as more often happens, placing ourselves) on a pedestal, or, more precisely, in favor of the camera.

In recent months, I’ve witnessed cronyism, servility, and hazing in the animal rights movement worthy of institutional politics: a real slap in the face for those seeking a space for rebellion in the anti-speciesist struggle.

How many other cages are created by using activists as cannon fodder, as numbers, as something to be sold, positioned, and moved, even whose silence can be bought?

I’m afraid of organizations that fear being destabilized and disrupted. They hide — and not even so subtly — a hatred of dissent that actually reveals a profound fear of honest introspection.

I’m afraid of associations that “dialogue” with institutional politics, claiming to want to improve things “from within” but then sitting in those armchairs whenever the opportunity arises. What a hassle in these places of power, isn’t it?

We can choose how to organize ourselves, without necessarily having to join a pre-existing “institution” and take orders. Organizing shouldn’t mean sacrificing our intelligence and critical thinking to become cogs in a machine. From a libertarian perspective, the organizational structure should maximize freedom and voluntary coordination at all levels, without more or less explicit “passes” to activists’ participation.

If we’re not allowed to question organizational logic, because corporatization also means privatization, then I want to question it here and now with this piece, because the struggle for animal liberation is a political and therefore is a public issue. And yes, it is, even if you’ve transformed the struggle into a private enterprise.

Radical imagination is the only tool I have left for real liberation.

This text, therefore, is an invitation to activists who claim to believe in grassroots struggle, not to simply invoke radicalism, but to practice it by uniting ourself on the basis of affinity.

And if you’ve unluckly find yourself in the infernal circle of certain associations, here is a warm invitation to question those around you about whether they have ever bought someone’s silence in the past, unlawfully removed them, or concocted legal documents to force them not to reveal facts and events that are clearly not allowed to be discussed. Probably, youll end up discovering interesting things.

I don’t have the privilege of naming names or paying lawyers, but only much less enlightened spaces from which to try never to remain silent.

That’s why I decided to entrust this text to ReST, which speaks about toxic behaviours in movement spaces.

With love and rage, an anti-speciesist and anarchist comrade

PARLIAMO DI NUOVO DI METODO

Vogliamo riprendere parola per ribadire alcuni punti che riteniamo fondamentali per la costruzione di uno spazio di condivisione sicuro, di supporto e di cura.
A grande richiesta, quindi, ecco a voi il listone patriarcale ovvero le frasi che abbiamo sentito ripetere senza soluzione di continuità da “compagnз” che volevano ricordarci come si parla delle violenze subite, o meglio come “stare al nostro posto”.

        

# 1. “‘Sorella, io ti crederei, ma quello è il
Dopo anni di sforzi sappiamo tuttз che la violenza di genere è strutturale e permea in maniera capillare le nostre vite… tranne quando è il compagno con cui ci facciamo le birre: lui no, lui non potrebbe mai. Figuriamoci, è un caro compagno, ha dato pure una mano a mia zia a cambiare la caldaia, non potrebbe mai agire violenza ai danni di una compagna! L’hai vista la sua libreria? Ha letto tutta la bibliografia da compagno decostruito TM!
Quindi niente, sorella, stavolta non ti credo. La prossima volta, fatti agire violenza da uno che non è amico nostro, che può diventare il mostro perfetto permettendo a tuttз noi di autoassolverci; uno che ci sta scomodo nel collettivo e che vorremmo cacciare già da un po’; uno che non ci serve a portare avanti l’egemonia in città. Così, sorella, ci metti proprio in difficoltà.
# 2. Autrici di narrativa fantascientifica
“Ok, riconosciamo che la violenza è strutturale ed è ovunque, ammettiamo di avere qualche problemuccio (perché in fondo siamo cresciutз tuttз in un mondo patriarcale, lo sappiamo), ma questa storia non è vera. Ero lì, ero presente giuro! E te lo posso assicurare: non è mai accaduto, si è inventata tutto la ReST“. 
Spoiler: tutte le testimonianze sono state inviate dallз direttз interessatз e non sono state scritte da chi ricondivide le storie sul blog.
Dopo aver ripetuto per anni che la violenza non si ferma ai confini del “movimento”, non riusciamo a capacitarci non solo di violenze interne, ma di coperture e connivenze croniche.
Eccezionale quindi che qualcunə abbia deciso per se stessə, secondo la sua volontà, di agire e usare la rete sotterranea come megafono, portando l’attenzione sull’esperienza subita all’interno di collettivi, spazi sociali e del sedicente movimento.
Chiariamolo una buona volta: ogni ricondivisione deriva e deriverà sempre e solo dalla richiesta libera, esplicita, informata, consapevole, volontaria e quindi necessariamente consensuale, di chi ha deciso di prendere parola e rendere noto il proprio vissuto scientemente silenziato negli spazi di movimento.
# 3.  Il mandato 
Notabile variazione del “parlate senza autorizzazione” e del “ti sei inventata tutto” (ormai un po’ âgée dopo questa quarta ondata di femminismo).
“E’ vero che le violenze ci sono state, ma colei che le ha subite è stata sovradeterminata signor giudice! E i fatti sono stati condivisi senza il suo consenso!! Qui manca il mandato!
La buttiamo lì: può essere che oltre alla violenza di cui siete a conoscenza e che non voleva essere assolutamente condivisama di cui per un bizzarro incrocio astrale non si fa altro che parlare – c’è ALMENO un’altra violenza di cui lə protagonistə, invece, voleva parlare?
Invisibilizzare una violenza con un triste tentativo di distrazione dal problema reale e concreto, serve solo come espediente per negare o non affrontare quanto raccontato da unə sorella. Il consenso è stato violato solo da voi, con goffi tentativi di infangare chi prova a liberarsi.
# 4. Il quadro probatorio
“Insomma sorella, tu vuoi essere creduta ma qui, senza prove sul tavolo, come facciamo?”
Con buona pace delle retoriche anticarcerarie, spesso usate strumentalmente per delegittimare la presa di parola sulle violenze subite, è lə compagnə che ha subito a finire al banco degli imputati. Il connubio patriarcale e quello giudiziario si fondono perfettamente in un’ottica punitiva nei confronti di chi decide di parlare, se il maltrattante in questione è utile nell’economia del gruppo politico di turno. Mentre ci stracciamo le vesti invocando la giustizia trasformativa, assistiamo a una profonda interiorizzazione del sistema penale, assolvendo chi ha potere e condannando chi non ne ha.
Si viene così sottopostз a un costante scrutinio: un modo subdolo per relegarci in un’area di iperperfezionismo giustificativo. 
“Bisogna sempre essere impeccabile: mai alzare la voce, mai mostrare dubbi. Semmai con un tono più dimesso, compagnə, altrimenti la violenta sei tu. Devi essere credibile, compagnə, agli occhi di tuttз, anche di chi è qui solo per screditarti. Nervi saldi compagnə.”
Ma in fondo avete ragione: perché cercare di creare uno spazio che faccia sentire più sicurз lз compagnз che alzano la voce, quando è molto più semplice chiudersi nella propria bolla, spendere notevoli energie per difendere l’abuser e la credibilità del proprio collettivo?!
Le assemblee di movimento non sono il valico attraverso cui unə compagnə deve passare per essere ritenutə credibilə. Le assemblee, i partiti, i gruppi informali non saranno per noi luoghi di validazione e ci rifiutiamo di subire forme di controllo o di potere, che siano dettate da dinamiche amicali o per convenienza meramente politica.
Siamo certз di quanto ci viene raccontato, siamo sicurз della metodologia e del rispetto del consenso con cui condividiamo, e non cerchiamo approvazione da nessun compagno né tanto meno da nessuna sigla.
Sorella noi ti crediamo deve essere una pratica concreta e radicale, non un mantra vuoto né un tribunale che richiede prove e documentazioni. Non ci stancheremo mai di ripeterlo.
# 5. Quale metodo? O anche “V per Vendetta”
“Sorella io ti credo, giuro ti credo, e vorrei anche aiutarti però tu hai sbagliato i modi, capisci? E io ora come faccio a stare dalla tua parte? Insomma sorella, rassegnati! Se prendi parola sulle violenze subite, di sicuro qualche tua mossa sarà bollata come sbagliata, esagerata, troppo vendicativa, non abbastanza trasformativa. E al compagno che ha agito violenza non ci pensi, eh? Gli stai rovinando la vita, non temi che possa farsi del male a causa tua, eh, eh?!
La retorica sulla metodologia “giusta” e sulle pratiche “giuste” non è finalizzata a creare contesti safer per supportare chi ha subito dando spazio alla sua volontà, tutt’altro. Ad oggi, questa narrazione è stata utile soltanto a silenziare lз compagnз che denunciano e chi prova a supportarle.
Triste constatare, al termine di questa ondata, che ormai serva una lettera protocollata per parlare di una violenza subita nei nostri contesti. 
Scimmiottando lo stato, si iperburocratizza ogni forma di relazione, corroborando i rapporti di asimmetria strutturale e di potere esistenti. Perciò allз compagnз in ascolto diciamo di essere prontз, perché con questo espediente retorico probabilmente vi ritroverete a “confrontarvi” con persone che fanno costantemente tone policing, che provano a manipolare e a fare gaslighting, se non addirittura farvi ritrattare quanto detto! Assisterete a una costante strumentalizzazione del tema della giustizia trasformativa: ironicamente, in questa narrazione ci si dimentica che per dare vita a percorsi trasformativi il primo passo  è proprio raccontare la violenza! È evidente infatti che per iniziare un percorso di reale consapevolezza con l’abuser, si debba partire dal riconoscimento dei suoi agiti specifici, capire come la violenza si sia innestata nelle sue specifiche modalità relazionaliSe non emerge la violenza agita, come si può pensare anche solo di iniziare un percorso di questo genere? 
In questo tripudio di paradossi, l’autore della violenza diventa la vittima dellə “violentissimə” compagnə che ha deciso di parlare e che, per aver semplicemente raccontato quanto accaduto, si trasforma in unə terribile carnefice. 
Se nominare la violenza, avendo cura di tutelarsi su ogni piano, viene etichettato come “vendetta”, se è questo quello di cui tanto ci avete accusato, banalizzando una pratica cardine del femminismo atta a sottrarre la violenza di genere alla invisibilizzazione strutturale a cui è rilegata, allora sì, chiamatela pure vendetta se vi fa comodo: continueremo a farlo.
Non ci sentiremo né in colpa né in difetto se la nostra liberazione crea un disequilibrio politico: preferiamo vedere rovinate false alleanze che continuare a recitare il copione del movimento “perfetto”. Siamo fierз di aver creato uno squarcio, fierз anche di essere “cattivз“. Rovina famiglie e rovina “movimento”. 
# 6. Il martirio
“Bisogna prendersi la responsabilità di parlare in assemblea.
Colei che ha subito, dunque, deve farsi carico di parlare davanti a tuttз di ciò che ha vissuto, a costo di subire alla peggio un processo o, alla meglio, di vivere un’esperienza estremamente ritraumatizzante. In caso contrario non si è credibili. 
E dopo domande insistenti, emarginazione crescente, fantomatici percorsi, te lo ritrovi lì, dove è sempre stato, con lacrime da coccodrillo e nessuna intenzione di concederti spazio o di cambiare i propri atteggiamenti. Oltretutto, si perpetua il binarismo patriarcale del lavoro di cura (del maschio violento di turno ma anche della comunità intera) sulle spalle di chi ha subito, con una sottile ma onnipresente (e cristianissima!) idea di colpa per aver scombinato la comunità. 
Incredibile che lз compagnз non si sentano a loro agio a parlarne davanti ad una platea ostile e spesso connivente con il maschio violento di turno, no?
E quindi lз nostrз compagnз si ritrovano accerchiatз, tra chi sparisce, chi finge di supportare, chi prova a delegittimare, chi richiede prove, chi vuole mille informazioni, chi continua a iperresponsabilizzarla chiedendo istruzioni ad ogni passo, quando forse quello che servirebbe è un po’ di tempo per sé, una vicinanza concreta e riposo dal carico mentale ed emotivo!
# 7. Quale cura?
“Devi avere cura nei confronti della collettività, dell’assemblea, della persona che ti ha inflitto il danno, capisci? Quella stessa che tu non hai ricevuto, sorella.
La cura ormai è stata sottratta del suo significato originario e dirompente, diventando un termine vuoto e posticcio, spesso a sua volta strumentalizzato. Così, parlando di ciò che si è subito, ribellandosi a prevaricazioni e a violenze, si finisce ad essere accusate di avere “poca cura”. Daje de gaslighting e manipolazione! 
Prendersi cura, in termini femministi, non vuol dire piegarsi al ruolo di subalternità a cui veniamo relegate strutturalmente, ma condividere responsabilità e redistribuirne il carico collettivamente. Cura non è un lavoro gratuito e automatizzato, né tanto meno un nostro dovere indistinto verso chiunque. Non vogliamo fare il lavoro di decostruzione per la marmaglia di maschi del movimento e delle figlie di papà (citando Valerie Solanas) che li difendono
Riteniamo invece prioritario prenderci cura di noi stessз e dellз compagnз che per anni sono statз silenziatз.
I percorsi di giustizia trasformativa saranno possibili quando sarà chiaro che la violenza del movimento è una responsabilità di chi la esercita e di chi la vuole nascondere, non certo di chi la nomina. Percorsi che non devono stare sulle spalle delle solite persone che si ritrovano ad accollarsi tutte le fratture, il dolore e le rimozioni della comunità, ma essere davvero condivisi. Quale trasformazione ci sarebbe, altrimenti, nel ricondurci sempre nel ruolo di brave educande o di materne figure di riferimento? 
Percorsi di gt, come già abbiamo detto, che devono essere messi in campo se chi ha subito decide di intraprendere questa strada, e non estorti dalla comunità attraverso pressioni.
Ci dispiace per l’eredità cattolica insita nel movimento, ma non ci sarà senso di colpa per le scelte politiche fatte, al contrario ci sentiremo felicemente e finalmente egoistз e in un luogo sicuro.
# 8. Scazzi di movimento
“Così non si fa altro che alimentare scazzi tra collettivi, in un momento di bassa come questo poi, ma non ci ricordiamo chi è il vero nemico?” 
Oltre a paragonarci a un’operazione della CIA, in questi mesi abbiamo visto associare il prendere parola sulle esperienze di violenza a “scazzi tra collettivi”, riconducendo il racconto delle violenze a una stupida ed inutile logica di corsa al potere egemonica dai tratti machisti.
Ogni presa di parola diventa quindi un complotto ai danni di un collettivo, di un’area, di una realtà organizzata, di quelli che alla fine sono i nostri compagni“.
No, gli uomini violenti e chi li protegge non sono nostri compagni: non scambiamo il pane con chi mina la nostra liberazione, neanche per una vaga idea di rivoluzione
E vi riveleremo un fatto sconcertante: non c’è nulla di speciale in un gruppo politico rispetto a un altro. Comunisti, anarchici, riformisti, disobbedienti, ecologisti, squatters, sindacalisti, antirazzisti, compagni decostruiti, ambienti queer, punk, teknusi, antispecisti: le storie sono sempre le stesse. Del resto, lo dicevano già le nostre sorelle negli anni ’70: compagni in sezione, fascisti a letto. E quando si trattava della nostra liberazione, nemmeno nello spazio pubblico!
Pur di non venire mai a patti con quanto avviene quotidianamente nelle nostre comunità umane e politiche, assistiamo a un benaltrismo degno di un distratto commentatore su fb: e allora Gaza? e allora le carceri? e allora la lotta per la casa? e allora e allora… 
Che amarezza constatare quanto siamo statз solidalз con loro, quanto abbiamo creduto alle loro parole nelle piazze e nelle strade, pensando di avere una lotta comune, e quanto siano statз poco solidali con noi, questз carз compagnз. Del resto il recente disgustoso “dibattito” (davvero originale per altro!) portato avanti da virili compagni anarchici ci ricorda quanto i nostri ambienti, qualsiasi siano le prospettive politiche, spesso non siano altro che banali e ordinarie comunità terribili.
# 9. Scarafagge
“Devono essere per forza quelle là che fanno sempre polemica in assemblea. Come si permettono a rovinare la vita delle persone?!”
Ci dispiace per chiunque sia statə scambiatə per noi, venendo colpitə da insulti, pressioni, se non veri e propri interrogatori, che volevano essere rivolte al cerchio di questa rete. Ancora una volta questa è la dimostrazione di ciò che stiamo cercando di denunciare.
La scelta dell’anonimato ci tutela e ci permette di osservare molto chiaramente le storture e i sotterfugi di un movimento che si muove per logiche di convenienza, connivenza politica ed apparenza. Ci rivendichiamo l’anonimato, fatevene una ragione. La nostra è una scelta politica consapevole ed è una tutela per tuttз lз compagnз che hanno voluto parlare e che continueranno a farlo.
La caccia alle streghe non è mai finita, ha solo cambiato veste. Non ci faremo scoraggiare da inutili pressioni esterne né dal giogo dell’infantilizzazione di cui siamo statз oggetto. La vergogna deve cambiare lato, in qualsiasi forma unə compagnə decida di denunciare una violenza subita.
Alle accuse rispondiamo andando avanti per la strada che abbiamo scelto. Ed è solo l’inizio.

– ReST

P38, compagni di chi?

Riceviamo e diffondiamo
“Assumere un’estetica di sinistra – dal basso, compagna, perfino transfemminista – non può essere un lasciapassare per la promozione dell’ennesima narrativa misogina e la riproduzione di comportamenti machisti e abusanti.

Sentiamo il bisogno di ribadirlo a qualche mese dall’uscita dell’ultimo album della p38, un gruppo musicale che si presenta come radicalmente politico e rivoluzionario.
Infatti, se già con gli album precedenti si poteva intuire una zona d’ombra, forse liquidabile come ironica, relativa al machismo diffuso nel gruppo, con l’ultimo è stata ampiamente superata ogni – bassa – aspettativa: abbiamo assistito con rabbia all’estremizzazione inaccettabile di una retorica ipocrita in bocca a maschi cis che si appropriano del lessico e dei simboli della lotta transfemminista mentre sessualizzano, infantilizzano e sminuiscono le compagne e, più in generale, le persone socializzate donne.

Per inquadrare il tipo di discorso che contestiamo alla p38, raccogliamo qui sotto alcune delle barre dell’ultimo album riferite alle compagne (tristemente, rileggendo integralmente i testi, scoprirete che quelle non riportate sono  altrettanto agghiaccianti):

  • C’ha una cula da miss, mi chiede il bis / Baby, scusa, ma l’iPhone non prende
  • Ha una maglietta con una mia frase sopra / Scambiamo due parole, poi vuole starmi sopra (Dico di sì) / Mi dimentico di Gaza quando vedo te / Se ti spogli, fai rotolare le teste dei re
  • Io stinco di santo, le stronze in divisa / manette ai polsi, vuole una famiglia / No hablo tu lingua / Bimba, non mi si drizza, drizza
  • Non è colpa mia se tua figlia sta nei miei DM / Hotspot, y’aight, sono il punto caldo / Dentro di me c’è lava / il mio cazzo lo chiama Vesuvio (Splash) 
  • La mia bimba nel Labello nasconde un coltello 
  • Lei vuole farsi leccare da questa voce
  • La sua figa è il mio combustibile / no cazzo a donne pacifiche, balaklava, bucchini e crimine
  • La sua tipa è fuori casa, paga e dopo mi sbatte / Gliela lecco distratto, penso al colpo di Stato / Sono sporco del suo piscio come un cazzo di water
  • La sua pussy trema, theremin (Ah)
  • Lingua in bocca, poi il mio bro ti manda in Siberia (Ciao)
  • Sto da solo, zitta, scema
  • Baby, dammi un bel bacio (Muah, muah, muah, muah, muah) Ah / Ti mostro dopo quanto sono bello
  • Facciamo a gara a chi c’ha più DM (A gara) / Prima puta, vuoi sapere subito il mio vero nome
  • Mai fatto l’elemosina da qualche groupie / Al massimo qualche fan per riempire i buchi (Un paio, eh) 
  • Se vuoi fare la zecca, quanto meno falla meglio / se non parli di ferri, di certo non mi eccito (No, no, no) / Tu ti sei accaldata, ma per me è tutto sbagliato
  • Se c’hai l’ADHD, mica non puoi essere stronza

Che tristezza constatare che anche nell’immaginario “sovversivo” promosso dalla p38, il ruolo migliore che possono assumere le compagne è quello di oggetti sessuali o, volendo concedere un bel po’ di beneficio del dubbio, di soggetti tassativamente rispondenti alle fantasie dei “compagni” il cui piacere funge unicamente da medaglietta al valore maschile. O “bimbe”, o “groupies” – al massimo qualche fan per riempire i buchi (un paio, eh)che diventano numeri in una gara di dongiovannismo tra i membri della band: Facciamo a gara a chi c’ha più DM (A gara) – Prima puta. Intorno alle compagne, il lessico si fa pornografico e sembra strizzare l’occhio ai maschietti testimoni di una performance pre-adolescenziale di virilità. Tutto ruota attorno al fallo di chi canta, al suo piacere, alla sua approvazione o al suo disprezzo; le compagne sono irrimediabilmente ridotte ad appendici relazionali, ritrovandosi costrette in ruoli che vanno dalla loro “baby” alla loro ex. In alternativa alla sessualizzazione, le compagne che non servono a nutrire il loro ego non possono che essere stronze o ancora, per arrivare all’altro apice dell’infantilizzazione, sceme.
Mai compagne, mai sorelle.

Se i fan più affezionati potrebbero ingenuamente sperare che queste scelte linguistiche dipendano dall‘adozione della semantica trap, questa ipotesi è ampiamente smentita dal programma del gruppo stesso: la p38 ha sempre dichiarato di riprendere il genere per sovvertirlo e farne il portavoce di un immaginario di estrema sinistra, e ha effettivamente provato a farlo rielaborandone i vari tropi. Eppure, a restare invariato è proprio il tema della misoginia, fatta eccezione per lo spostamento dei canoni di feticizzazione verso un’estetica di movimento.
Tristemente paradossale, dato che il gruppo si brandizza tramite la rivendicazione, tra l’altro, della lotta delle compagne: basti pensare che nello shop della gang, per poco più di una ventina di euro, è possibile acquistare una maglietta che recita femminismo violento. Mentre riproduce una narrazione profondamente patriarcale, la p38 fa cassa con del merchandising che si appropria della lotta transfemminista.

Ci sembra interessante poi rilevare che la quantità di misoginia espressa dal gruppo è direttamente proporzionale al calo della qualità sovversiva” dei loro contenuti, probabilmente a seguito delle denunce ricevute in passato. In questo vuoto di significato sembra essere avanzato lo spazio per il disinvolto sfogo di virilità machista di chi cerca l’ebbrezza del potere mediatico, di visibilità e di successo.

Forse questa goliardica misoginia serve a colmare un vuoto dovuto alla mancanza di argomenti dirompenti e di contenuti significativi? Il fallocentrismo è quindi la soluzione all’horror vacui di una crisi creativa?
Oppure, sull’onda della visibilità mediatica recente, il gruppo sta cercando un successo più commerciale?
E ancora, la – seppur molto rara – narrazione non sessualizzante di sorelle e compagne e le critiche al patriarcato degli album precedenti erano solo strumentali e costruite ad hoc per assicurarsi un certo pubblico e il patentino di compagni

Non abbiamo dubbi, sarà stata proprio la profonda coscienza politica transfemminista del gruppo ad aver portato i membri a pubblicare fieramente una canzone intrisa di machismo fin dal titolo e dal ritornello che recita “zitta, scema”, come farebbe un qualsiasi trapper a-politico. Oltre a promuovere una narrazione riduttiva e svilente delle compagne, questa canzone riproduce e rivendica comportamenti sessisti e abusanti verso le stesse. Chiariamo una dinamica già chiacchierata: l’audio usato come outro alla canzone è stato estratto da una chat con l’expartner di uno dei cantanti, risalente a quasi quattro anni fa, e pubblicato senza alcun consenso o (almeno) distorsioni vocali.
Questa scelta, che potrebbe essere interpretata come una semplice dinamica relazionale e privata, è al contrario estremamente politica. Infatti, la violazione consapevole e rivendicata del consenso dell’ex-partner rappresenta un abuso di potere – basato sullo squilibrio di visibilità recentemente acquisita – che presuppone la riduzione di una persona socializzata donna a (s)oggetto sempre subalterno. Con una certa ipocrisia, la stessa p38 che ha cercato di criticare il revenge porn di cui sembra essere accusato il giudice del loro processo, ne riproduce le dinamiche condividendo materiali intimi e sensibili dell’ex-partner al fine di umiliarla pubblicamente. 

Le imbarazzanti scelte linguistiche disseminate in tutto l’album, dimostrano come il testo di questa canzone, così vuoto da sembrare unicamente strumentale alla pubblicazione del messaggio vocale, rappresenti in realtà l’apice di una tendenza della gang a sminuire e annichilire e le compagne, mai abbastanza compagne, mai abbastanza radicali, mai all’altezza dei loro gloriosi compagni e artisti. In una parola, sceme

Se la p38 desidera fare carriera sulla pelle delle compagne mentre rivendica il potere d’azione dell’immaginario sulla realtà, allora dovrebbe ammettere che quella scelta è una linea politica molto poco insurrezionale, strumentale, becera, macista e sicuramente non transfemminista.

Se vuoi fare il rivoluzionario, quantomeno fallo meglio.
Se c’hai la fama, mica non puoi essere stronzo.
E sì, il problema sei proprio tu.

 

*Si è scelto di usare i pronomi femminili per confrontarsi con più agilità con il discorso e il lessico della p38. Il plurale femminile é da considerarsi inclusivo di tutte le soggettività che non si riconoscono nel maschio cishet.

QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLO SCANDALO DELL’ESCLUSIONE

Riceviamo e diffondiamo un CONTRIBUTO RELATIVO ALLA RIFLESSIONE SUL DIBATTITO ANARCHICO A PARTIRE DAI TESTI DIFFUSI DALLA fIERA DELL’EDITORIA E DELLA PROPAGANDA ANARCHICA DI ROMA – LINK IN ALLEGATO

 

“Da diversi anni giro nel contesto anarchico e sicuramente non sono estranea alla lettura di articoli su siti di movimento, né tantomeno al commentarli e confrontarmici su. Purtroppo capita che alcuni di questi, pur trovandoli di dubbio interesse in termini di contenuto, mi risultino poi utili a capire una tendenza oramai consolidata su cui penso sia arrivato il momento di soffermarsi.

Onestamente, sono convinta che non siamo d’accordo su quali siano le basi che dovrebbero accomunarci nell’ideologia anarchica e va bene discutere di questo, ma per favore facciamolo con quest’assunto. Io mi sento di rivendicare la scelta politica di organizzarmi per affinità e di scegliere in base a questa, come quella di diffondere contributi che considero interessanti in base al contenuto e alla persona che li produce. D’altra parte credo che ognun di noi si dia criteri più o meno definiti in questa direzione, altrimenti gli stessi blog non sarebbero più tali, ma piuttosto dei forum dove qualsiasi internetnauta direbbe la sua con o senza pertinenza con i concetti che si vorrebbe diffondere, o una “Fiera del Libro Anarchico” potrebbe trasformarsi in un “Salone dell’Editoria”, se vogliamo, indipendente. Ma diciamoci anche che di saloni del libro già uno ce n’è e basta e avanza. Io mi rivendico di scegliere di diffondere idee che condivido e di riunirmi con chi trovo affine nel voler distruggere ogni gabbia, sabotare la guerra, far fronte al suprematismo scientifico e l’avanzamento tecnologico e, soprattutto, riconoscere e abbattere il dominio umano, bianco e patriarcale.

Non vedo dove sia il problema in questo e anzi ringrazio chi si impegna a creare situazioni in cui ciò sia possibile.

Il tema dell’esclusione, d’altra parte, è un tema che sembra essere davvero caro a molti e su cui c’è chi prova a batter chiodo da molto tempo. Che sia per un’insidiosa FOMO (Fear Of Missing Out: Paura di perdersi qualcosa – e spiego a chi è più avvezzo al latino che questo sì, è un anglicismo, mentre un testo scritto in inglese per un evento di taglio internazionale è una scelta di renderne accessibile il contenuto) che colpisce gli umani con tendenza più sociale, o per una mera questione di principio, a me purtroppo ancora non è chiaro perché risulti una punizione così feroce e soprattutto un gesto irrivendicabile.

D’altra parte non mi sono mai posta il problema vedendo cacciare infami o gente che si è intascata soldi da casse benefit. E allora qua la domanda che mi sorge spontanea è: non siamo d’accordo sull’esclusione o sui motivi che spingono a questa? E se fosse la seconda ipotesi, perché allora non si parla di questo?

Trovo che la scelta di dirottare la discussione sui metodi, piuttosto che sul contenuto, sia fin troppo forviante. E quasi mi viene il sospetto che non sia un caso. Quel che sto riconoscendo in determinate argomentazioni è la tendenza a portare delle narrazioni di fatti in maniera già ben veicolata in termini di concetti da divulgare. Un tipo di narrazione oserei dire sfacciatamente mendace che credevo di attribuire all’informazione di regime e che mi imbarazza riconoscere in quella antagonista. Posso fare l’esempio di testi che han girato nell’internet che si riferiscono a psicosette transfemministe che avrebbero minacciato e aggredito fisicamente i loro oppositori, o a diffusioni di volantini raccontate come violenti blitz femministi. Mi sembra un po’ come quando la Stampa descrive un presidio sotto al carcere con qualche slogan e due torce come un incursione armata in cui decine di poliziotti restano feriti. Non saremo mica troppo abituati a leggere le carte dei nostri P.M.?

Questa necessità di inventar storie, ingigantirle o diffonderle, mi lascia davvero allibita. Immaginarmi, poi, intere collettività riunirsi a discutere attorno a queste fandonie mi fa rendere conto di quanto sia scarsa la capacità di certi individui di sviluppare un proprio pensiero critico, o comunque, di quanto sia forte questo senso di appartenenza, questa voglia di esser parte “del giro”.

Personalmente inorridisco quando vedo l’unione fare la forza a discapito del pensiero individuale e sono disgustata dagli atteggiamenti gregari e omertosi che ho visto mettere in atto negli anni. Mi dispiace davvero che il dibattito anarchico si trovi così povero di argomenti e contenuti.

Io, di mio, di fronte a giornalisti di ogni sorta e a chi si atteggia come tale, posso dire quel che ho pensato tante volte leggendo carte o giornali e cioè che, ancor più se la reazione è così spropositata, tantovale farsi sempre meno remore: vendetta feroce e violenta contro oppressori di ogni tipo, sbirri e stupratori.

                            Per l’anarchia.”

 

Link di riferimento:
https://rome-anarchistbookfair.espivblogs.net/testo-di-posizionamento/

https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/04/07/la-disputa-del-sacramento/
https://ilrovescio.info/2025/04/02/lettera-aperta-sullinvito-alla-fiera-delleditoria-e-propaganda-anarchica-di-roma-di-juan-sorroche/

SORELLANZA CONTRO LO SQUADRISMO MACHISTA NEGLI SPAZI COMPAGNI

Riportiamo un intervento  di denuncia dal corteo per l’otto marzo 2025 di Bologna

“Ciao a tuttu, oggi volevamo venire qui con l’intenzione di leggere un altro comunicato per denunciare come all’interno del movimento tutto ci sia una connivenza tra abusers e compagnu, e ci ritroviamo invece a denunciare l’ennesima violenza intimidatoria usata da autoproclamatu compagnu verso persone che si sono adoperate per fare uscire il marcio tenuto nascosto nei loro spazi.

Oggi le compagne che sono state coinvolte nelle numerose violenze, sia per quelle di genere sia per quelle squadriste, si sentono molto in pericolo per il livello di esposizione e di rischio che stanno correndo e quindi ci siamo ritrovate costrette a usare la voce di un’altra persona. Risulta paradossale che per parlare delle violenze subite nessuna di noi si senta abbastanza al sicuro e che debba essere una persona socializzata maschio a dover parlare, ma questo ci dà il polso della situazione. Questo intervento ha un duplice scopo: il primo parlare alle persone che hanno agito direttamente le violenze per fargli sapere che abbiamo gli occhi puntati su di loro, e il secondo di parlare alle persone che ancora non sanno, con l’auspicio che queste ultime possano tutelarsi e prendere posizione in merito ai fatti accaduti.

Stanotte alcune nostre compagne hanno subito un agguato in pieno stile squadrista dalle compagne e dai compagni autonomi, baluardo dell’antifascismo Bolognese, che però non riescono a fare i conti con i problemi di violenza e stupri che hanno al loro interno.

Vi raccontiamo i fatti: stanotte dellx compagnx hanno deciso di fare un giro scritte per denunciare i fatti e le realtà che agiscono violenza all’interno degli spazi sedicentemente compagni. 

Su via Carracci, si sono accorte di essere seguite da un compagno autonomo che, con fare intimidatorio, è stato raggiunto da altru compagnu. Le compagne, a quel punto, si sono ritrovate braccate, spintonate, prese a pugni e schiaffi in faccia, filmate e perquisite.

Nonostante autonomi e autonome si fossero scagliate contro compagne più giovani e che non avevano nessuna intenzione di essere violente, hanno deciso di continuare a chiamare rinforzi. 

Durante le interazioni sono arrivate in loro supporto altre persone, una delle quali, fomentata dal racconto che probabilmente gli autonomi gli hanno fornito, ha erroneamente colpito uno di loro.

In questa occasione la loro violenza è stata tale da mandare in pronto soccorso una delle compagne che stava denunciando gli abusers.

Precisiamo che le nostre compagne stavano denunciando quello che il movimento transfemminista bolognese non denuncia da tempo. Di fronte alle ennesime violenze, lx compagnx si mostrano conniventi senza prendere una reale posizione politica e anzi continuando a creare alleanze con le reti di abusers, mentre molte delle persone che hanno subito sono state costrette ad allontanarsi dalle proprie lotte.

Chiediamo al movimento trasfemminista tutto di prendere finalmente posizione in merito a quello che già in tantissimx sanno ma che coprono da troppo.

L’ora di difenderci nei nostri stessi spazi è passata, è l’ora che ad avere paura, a provare vergogna e a non sentirsi al sicuro siano coloro che agiscono violenza! 

Se si sceglie di difendere i violenti, si è violente a propria voltaQuando inizierete a fare la caccia alle streghe, sarete violente a vostra volta. E noi, al machismo squadrista e patriarcale rispondiamo con sorellanza attiva e reti di mutuo supporto

Nessuna da sola! Se toccano una toccano tuttx!”

QUESTA PIAZZA NON È L’OTTA PER TUTT3

Date comandate e piazze spettacolari tra performatività e omertà di movimento

È ormai innegabile che l’8 marzo si stia trasformando sempre di più in una una “data da corsa“, corsa nella quale viene strumentalmente dimenticato quanto la performatività – intesa come estetica delle forme e delle tempistiche sia deleteria. Si badi bene, non vogliamo qui sostenere che tutte le piazze siano oggi solo un siparietto ben orchestrato, riducendo così lo sforzo di tantз compagnз, ma non possiamo restare a guardare mentre queste si popolano di ipocrisia e spettacolarizzazione: potremmo essere tacciatз di essere “dure e pure” ma non si tratta di escludere, la politica securitaria e giustizialista non rientra tra i nostri interessi. Si tratta di riflettere, ascoltare, di posizionarsi e di agire, non per estetica ma per amore. Ed è per questo che non possiamo più mettere a tacere le nostre riflessioni, perché sappiamo di non essere lз unichз a non sentirsi più rappresentatз da queste piazze.

 

Siamo chiaramente lontanз dai primi anni della rinascita dei movimenti tranfemministi nazionali, dalla loro portata rivoluzionaria che esplose come momento di ripresa delle coscienze collettive, di volontà di estendere la sorellanza, di ribellione al destino patrariacale. Troppo spesso sentiamo di aver perso pezzi, fallendo nel perseguire obiettivi comuni e condivisi, cadendo nello sguardo occidocentrico bianco e patriarcale. Troppo spesso in cerchi e assemblee abbiamo sentito parlare dei casi di violenza come di qualcosa di troppo grande da gestire, da delegare sempre ad altrз ritenutз più prontз e preparatз, in una sorta di resa collettiva rispetto alla possibilità di generare teorie e prassi di contrasto alla violenza di genere.

Il frutto di queste mancanze è un grande scollamento, che diventa palpabile nei grandi appuntamenti politici, ormai svuotati della loro portata rivoluzionaria. Sono rimaste solo date dietro le quali nascondere ritualità alienanti, automatizzate, imposte da un certo ordine gerarchico che si è confiugarato pian piano all’interno delle assemblee e di tutti quei momenti di costruzione della piazza. Nelle collettive, nei nodi locali, si assiste ciclicamente a un “effetto a fisarmonica”: le assemblee, le cene, gli eventi di auto finanziamento si popolano all’approssimarsi della data e, una volta calate le luci della ribalta, allo stesso identico modo, si svuotano. Eventi ripetitivi e saturi di slogan non riescono a creare un vero legame con le istanze che portano avanti, e falliscono nel creare una vera comunità. E così, il fervore che accompagna la preparazione della discesa, si perde all’indomani dell’8 marzo.

Le nostre piazze, specchio del movimento, soffrono di dinamiche di accentramento del potere: i nuclei centrali delle assemblee, nonostante le premesse sull’orizzontalità, finiscono veramente troppo spessoper non dire sempreper riprodurre dinamiche escludenti e, oseremmo dire, nonniste, dove il “c’ero da molto prima di te” blocca l’afflusso del pensiero divergente, se non formalmente, di certo sostanzialmente.

Il privilegio di stare in piazza non è più una questione di fondamentale importanza soltanto quando riguarda il tempo a disposizione, lo status sociale ed economico, la condizione di abilità, ma va indagato anche internamente, rispetto ai protagonismi e alle prevaricazioni che puntualmente replichiamo all’interno degli spazi transfemministi.

 

Le nostre date diventano copioni già visti, in cui la “costruzione” della giornata sembra esaurirsi in una organizzazione logistica meramente materiale, in cui lo sciopero non ha pieno valore, in cui regnano sovrani i rapporti interpersonali, in cui si chiude perfino un occhio alla presenza di abusers in piazza se contribuiscono al quieto vivere e a reggere lo status quo e a fare numeroCosì, ad esempio, si accetta la presenza di chi politicamente ha deciso di non affrontare le violenze perpetrate all’interno dei propri collettivi, in nome di un obiettivo politico superiore eletto all’occorrenza, come la violenza di genere o la resistenza antifascista (di cui oltretutto ci si ricorda solo nei casi di clamore mediatico o per sfruttarne la sua portata simbolica e spettacolarizzante). La sigla tenuta ben stretta come vessillo di potere e visibilità, le mosse politiche studiate e i calcolati intrecci con questa o quell’altra collettiva per utilità: poverз illusз coloro che hanno creduto che le logiche di asservimento e convenienza appartenessero solo alla politica istituzionale!

 

Abbiamo voglia di stare in piazza, ma non di attraversare luoghi in cui la diversità di pensiero rappresenta motivo di esclusione. 

Abbiamo voglia di stare in piazza, ma non tolleriamo più di scendere a patti con spazi e comunità terribili e complici della violenza patriarcale.

Abbiamo voglia di stare in piazza, ma senza che lз nostrз compagnз debbano restare a casa, per evitare di incontrare il proprio abuser, vittorioso in prima linea.

Se chi ci legge ha attraversato qualche assemblea, riconoscerà subito i meccanismi a cui facciamo riferimento, meccanismi sui quali speriamo si apra una riflessione profonda, necessaria seppur scomoda, come già successo a seguito degli altri articoli e delle denunceNon vogliamo piazze numerose per vedere il nostro logo o la nostra faccia su un post, su una pagina di giornale: vogliamo piazze vissute, radicali e coerenti. Un tempo portare nelle piazze e nelle strade i nostri corpi, costretti all’omologazione dell’ordine sociale e poliziesco, era un atto irruente, fortemente oppositivo allo schema dominante e, oltre a essere una forma di protesta, si configurava come un atto di aggregazione, di solidarietà e sorellanza transfemminista. Gli spazi pubblici, le strade, le città, diventavano finalmente “a misura” di donne, frocie, trans, queer e meticcз, rendendosi attraversabili per tuttз lз soggettività dissidenti. 

Vogliamo tornare a scendere in piazza e sentirci potenti, vogliamo la consapevolezza che un cambiamento radicale è ancora possibile, che non scenderemo mai a compromessi con la violenza patriarcale. Riprendiamoci i nostri spazi e le nostre lotte.

 

 

-ReST

TO REST

Spazi rigenerativi e autodifesa contro la strumentalizzazione della giustizia trasformativa

 

Negli ultimi mesi abbiamo osservato le diverse conseguenze della nascita di ReST e delle storie che abbiamo condiviso. Abbiamo visto nascere una rete di sorellanza, ricevendo testimonianze di chi ha sentito di aver trovato uno spazio sicuro e, a livello nazionale, si è ricominciato a parlare della violenza negli spazi e della costruzione di nuove prassi. Prendere parola pubblicamente ha anche significato, però, assistere a una caccia alle streghe: sono partite vere e proprie indagini da parte di collettive e compagnз per scoprire la nostra identità e l’identità delle persone che hanno denunciato, senza rispettare l’esigenza di sicurezza che ha portato a scegliere l’anonimato. Chiunque ha avuto da dire la sua, chiedendo spiegazioni sulla veridicità e sulla “liceità” della prassi. Ci è stato detto di non aver condiviso abbastanza informazioni, come se per essere credutз fosse necessario fornire i dettagli e fare nome e cognome degli abuser.  

Ci è stato detto, come sempre, che ci sono “altre versioni”. 

Abbiamo visto uomini pronti a dichiararsi alleati parlando per noi, utilizzando le nostre violenze per auto-assolversi in una negazione della pervasività della violenza. Abbiamo letto che creare uno spazio come il nostro equivaleva a sorvegliare e punire“, e che uno strumento come il blog non fosse una pratica concreta, che autodeterminarsi alzando la voce, chiedendo supporto allз compagnз, non rispetta le prassi di sorellanza transfemminista.

Non solo critiche sull’attendibilità delle fonti, ma anche infantilizzazione e annichilimento: siamo statз tacciatз di codardia, di inesperienza, di mancata trasparenza;  siamo statз psichiatrizzatз, additatз come poco credibili; siamo statз accusatз di aver cercato vendetta, punizioni, di aver agito secondo le logiche di competizione e di strumentalizzazione; di esserci inventatз tutto. È stato detto che si sarebbero dovuti attivare percorsi di mediazione interna, di giustizia trasformativa, che così si distruggono le comunità, si mette in cattiva luce il movimento, come se l’obiettivo non dovesse essere l’autodeterminazione dellз survivors ma tenere pulita la faccia delle comunità politiche

Per minimizzare le storie, qualcunə ci ha descritte come mal informatз, affermando che avremmo “sovradeterminato lз survivors” e, cosa triste e paradossale, svelando loro stessз ulteriori casi di violenza di cui non eravamo neanche a conoscenza. In conseguenza di questa dialettica di discredito, con amarezza ma senza sorpresa, abbiamo visto aumentare la mole di vissuti violenti sommersi, quelli ora sì rivelati senza consenso, tutto nel vano tentativo di individuare le singole esperienze raccontate sul blog.

Prendere parola è uno strumento politico potente e non accetteremo che venga strumentalizzato in nome della presunzione di innocenza di chi detiene potere: nominare la violenza è sempre una scelta rischiosa, può essere sofferta e far paura, e non ha niente a che fare con “dispetti”, con il machismo competitivo fra gruppetti o con il misero gossip. 

Perchè nessunə si è chiestə come mai lз compagnз abbiano dovuto scegliere di raccontare quanto accaduto in forma anonima, per tenersi vivз e sicurз? Perché non credere che i tentativi di mediazione fossero già stati fatti – come per altro già detto nelle testimonianze? Perché non credere che rivolgendosi a realtà, collettive e assemblee pre-esistenti, la loro libertà non veniva difesa, ma anzi, ci si ritrovava più a rischio e spesso sotto processo?

Nessuno sguardo critico è stato rivolto a coloro che hanno insabbiato le violenze o a chi non le ha volute vedere. C’è stato solo un triste processo di victim-blaming, che ha messo in discussione i contenuti e le storie pubblicate. La scelta stessa di parlare di call out – assorbita in termini pressoché acritici negli ultimi anni – anziché di presa di parola pubblica sulla violenza subita, sposta l’attenzione su chi agisce violenza e sulla sua immagine da riabilitare, oscurando chi la nomina.

Paradossalmente, sembra che ci si dimentichi che anche i processi trasformativi stessi partono dal parlare della violenza!

Anche se dopo anni, anche se in anonimato, anche se non racconti i dettagli, anche se mi è stato detto che sei pazza: sorella io ti credo. E sorella tu, e solo tu, decidi per te.

Negli ultimi anni, ogni volta che la violenza di genere torna ad abitare quegli spazi che ci illudevamo fossero liberati, ci ritroviamo davanti a un’impalcatura complessa, a volte burocratica, orientata a “gestire” l’ennesimo caso, ma quando chi ha vissuto la violenza decide di difendersi, o addirittura di contrattaccare, ogni respiro, gesto, parola viene messo sotto processo. 

Sembra che ciò che resta dei movimenti politici dal basso trovi sollievo soltanto nella giustizia trasformativa: una soluzione che, in realtà, nasce come alternativa alla giustizia punitiva e repressiva delle istituzioni, e non come unica risposta per ogni forma di violenza. 

È importante sottolineare che spesso nei casi che finora abbiamo pubblicato non era stata espressa, da parte dellз surviviors, il desiderio di un percorso di reinserimento dell’uomo violento anzi, spesso era stato esplicitamente chiesto l’allontanamento: necessità però mai accolta o solo parzialmente, attraverso allontanamenti temporanei, per calmare le acque.

Così, ignorando effettivamente la volontà di chi ha subito la violenza, si viene meno a uno dei principi fondamentali per un percorso di giustizia trasformativa (GT). 

Oltre a quelle del blog, ci sono state riportate esperienze di altrз compagnз che avevano chiesto a tutti gli effetti di attivare percorsi di mediazione e di GT ma che, prima ancora di partire, si sono scontratз con spazi che hanno negato la violenza e lз hanno allontanatз, oppure che hanno “applicato” la GT secondo l’interpretazione più comoda al caso, finendo per accettare sempre di più le richieste dell’abuser, eterno protagonista dello spazio in cui si sarebbe dovuto mettere in discussione.

Viene meno, quindi, un altro principio: una reale presa di coscienza e di responsabilità da parte dell’uomo violento e dello spazio che lo accoglie.

Lo sguardo rimane incentrato ancora una volta sull’uomo, sulla sua perpetua richiesta di cura, lasciando sulle spalle delle compagne la responsabilità di “rieducare” il maschio.

Non si mette in discussione il contesto di partenza e la comunità si ripiega su se stessa, in una strenua difesa dell’immagine di sé: senza mettere al centro la riappropriazione della scelta di chi ha subito, non ci potrà mai essere reale responsabilizzazione e cura collettiva.

Senza rendercene conto, per l’ennesima volta, la persona a cui viene inflitta violenza finisce in secondo piano e a rimanere preservato è il rapporto di potere preesistente, di natura patriarcale e gerarchica.

I nostri spazi, con buona pace del loro desiderio di liberazione, diventano luoghi di addomesticazione patriarcale, dove ci si attiene ad analisi retoriche e promesse. 

Noi crediamo che la GT non sia e non possa essere l’orizzonte unico del transfemminismo e non intendiamo in alcun modo rispettare i paletti di percorsi di reinserimento (e ancora di più di reinserimento immediato), che attualmente hanno generato consenso soltanto perché consentono di ripulire la reputazione delle comunità.

Abbiamo costruito prassi transfemministe oppure abbiamo soltanto steso la tovaglia fucsia sulla tavola imbandita nella casa occupata dei maschi del movimento? Trovandoci con il loro lavoro di decostruzione sulle spalle come piatti sporchi a fine pasto? 

Possiamo davvero pensare di traslare la nostra liberazione, di donne e soggettività femminilizzate, in quella che diventa una riproduzione imposta del ruolo di cura costante? 

Perché rivendichiamo la violenza politica quando questa incarna l’idea di autodifesa transfemminista ma, quando si tratta di alzare la voce sulle violenze negli spazi di movimento, invitiamo tutte le presenti in sala a stare sedute composte e a comportarsi in maniera ponderata e adeguata?

Queste sono le domande che poniamo e che ci stanno accompagnando in ogni passo di questo percorso, in cui ci proponiamo di essere megafono, di raccogliere e accogliere le voci che sono state silenziate e nascoste fino ad ora.

Abbiamo bisogno di ripartire da noi, di concentrarci di nuovo su ciò che può dare più concretezza alla nostra liberazione, di esplorare i mille strumenti che abbiamo a disposizione, di creare spazi di rigenerazione: to “rest”

Speriamo che questa Rete Sotterranea Transfemminista possa essere una tappa di un percorso di consapevolezza collettiva, in uno scenario politico che fin troppo spesso si accontenta di lasciare indietro chi ha vissuto violenza, dove la cura spesso si riserva agli abuser, e dove la parola rete sembra aver assunto la forma di una gabbia e non di un supporto.

-ReST

ANCORA UNA STORIA DI VIOLENZA

Di “compagni militanti” abusers e indifferenza nel movimento

A 20 anni, con tutta la rabbia che ero riuscita ad accumulare da quel luglio del 2001, arrivai in una grande metropoli, una di quelle in cui il Movimento c’è e si sente.

Nel pacco da giù mi portavo una relazione tossica e, proprio al culmine della violenza, incontrai la militanza politica.
Da subito mi sembrò un luogo sicuro e confortante, uno spazio in cui l’indifferenza della provincia non avrebbe sommerso ciò che stavo subendo, persone pronte a schierarsi dalla mia parte. Ma poi capii.

Quegli uomini mi erano sembrati così diversi da quello che mi picchiava e da tutti quelli che guardavano e sminuivano, solo perché non erano suoi amici. Quando la fiaccola del violento è passata ad uno di loro, un compagno, improvvisamente nessuno si è proposto per “fargli un discorsetto”. Anzi. Alcuni uomini mi hanno consigliato di accompagnarmi sempre ad altri compagni uomini per andare in manifestazione o alle serate benefit. “Così lui non si avvicina” – dicevano.

Altri uomini cercavano di spiegarmi che lui non aveva gli strumenti perché non aveva ancora compiuto la completa trasformazione in Compagno Militante e non sapeva ancora che certe cose non si fanno.

“Se noi lo abbandoniamo chi glielo spiegherà?”

Alla fine fui io ad andarmene, devastata, e le mie compagne a ripulire tutta la merda che questa vicenda aveva lasciato, dentro e fuori, nei singoli e nella collettività.

Quando mi decisi, diversi anni dopo, a tornare, avevo paura.
Un altro uomo mi disse che non dovevo averne, che lui e i suoi amici avrebbero gestito la cosa. Alle 2 di notte un altro uomo mi portava via dal Centro Sociale perché a causa mia stava scoppiando una rissa che avrebbe messo fine alla serata. “Giancoso si è sbattuto per organizzare”. Il giorno dopo mi chiamo’ una compagna di quel Centro Sociale per dimostrarmi solidarietà.
Tante altre compagne fecero lo stesso, molte senza dirmelo, caricando sui loro corpi il peso di quella vicenda. Peso che con coraggio portarono fino in fondo, fino a sganciarlo addosso a quei compagni come una secchiata di acqua ghiacciata.

Da tutto questo ho capito qualcosa che forse può tornare utile ad altre compagne: l’essere parte di un Movimento non ci esime da un lavoro continuo e costante di messa in critica e decostruzione di noi stessə, come singoli individui e come collettività.

 

La violenza contro le donne è sistemica e trasversale agli spazi, ai tempi, alle classi sociali. Quello che fa più male è sempre, ogni volta, l’indifferenza che le fa da palcoscenico.

Non possiamo controllare le azioni di tutti gli uomini, compagni e non, che conosciamo, e nemmeno educarli (vogliamo l’ennesimo lavoro non pagato?).
Possiamo credere alle donne sempre, anche se non le conosciamo, anche se lui è un nostro amico, fratello, figlio o compagno.

“SORELLA IO TI CREDO”

CADE LA MASCHERA DI UN ALTRO SPAZIO OCCUPATO VIOLENTO A NAPOLI

Sono più di quattro anni che come compagne di Napoli nominiamo Mezzocannone Occupato come spazio violento, dalla struttura patriarcale e omertosa. Sono più di quattro anni, che siamo costrettɜ a vedere il viso di un uomo violento farsi portavoce delle nostre lotte, venire chiamato “compagno transfemminista”, portare con fierezza i nostri striscioni privandoci effettivamente del nostro diritto di scendere in piazza, se non al costo di sentirci in pericolo.

Se a rendere gli spazi safer è chi li attraversa, la retorica di Mezzocannone in questi anni è stata che “i panni sporchi si lavano in famiglia”, ma a noi i panni piace lavarli in piazza, proprio dove loro continuano a portare stupratori, violenze, prevaricazioni, bullismo e omertà.

 

Oggi quindi non risparmiamo nulla a una comunità violenta che ha agito e poi negato violenze fisiche e psicologiche, che ha abbandonato le survivor (all’epoca dei fatti oltretutto minorenni), che ha promesso di prendersi carico di un allontanamento che non è mai avvenuto, che non si è fatta alcuno scrupolo a minacciare di morte le compagne, a mettere le mani al collo, a chiudere a chiave le stanze dove si consumavano violenze psicologiche e fisiche.

Lɜ compagnɜ di Mezzocannone Occupato qualche mese fa, in risposta a una lettera dove venivano accusatɜ sotto gli occhi del movimento, hanno osato definire la  denuncia in questione un “atto meschino”, “vigliacco”, con modalità “inquisitoria, questurina”, “infame” perché non prevedeva confronto e ricorreva “al gossip e al pettegolezzo”.

Nessun riferimento alla violenza nominata, ma solo la colpevolizzazione delle compagne che hanno alzato la voce senza sottoporsi all’ennesimo confronto nascosto e inutile.

 

Queste accuse infatti hanno già attraversato i cerchi di Mezzocannone più di quattro anni fa, e lì le survivor erano state costrette a confrontarsi con il loro abuser che, con lacrime da coccodrillo, aveva promesso di lasciare loro lo spazio di guarire, come fosse una gentile concessione del compagno violento.

Dopo piú di quattro anni possiamo dire che era solo un modo per zittirle: non è passato un giorno senza che lui occupasse i nostri spazi politici, e usare la giustizia trasformativa come scusa per non assumersi la responsabilità è l’ennesima distorsione di uno strumento che dovrebbe essere di cura.

Nominare la violenza, lo ribadiamo, è un atto politico transfemminista.

 

Giudicare ed attaccare lo strumento e le modalità con cui la si nomina è reazionario. Questo è solo uno dei tanti comportamenti violenti di cui siamo a conoscenza tuttɜ da anni a Napoli.

 

A dispetto di alcune collettive napoletane che hanno preso posizione, la maggioranza degli spazi continuano ad assumere posizioni ambigue o addirittura a condividere piazze, comunicati e lotte politiche con Mezzocannone, come nel caso dell’Ex Opg, che in occasione delle lettere sopracitate chiese “una vera analisi ricostruttiva dei fatti per individuare pratiche e strumenti proporzionati da adottare (…) con l’ambizione di mettere al centro una tutela reale per tutte le persone coinvolte”. Addirittura si fa riferimento a ricostruzioni, prove, strumenti proporzionati, riproducendo le dinamiche dei tribunali di Stato

dov’è finito il “sorella io ti credo”?

 

Evidentemente si arriva a qualsiasi cosa pur di non prendere posizioni nette  che potrebbero danneggiare gli interessi strategici e politici.

È tempo che tuttɜ sappiano, perché è il momento di spezzare questo ciclo di violenze, perché non accettiamo di vedere compagnɜ violentɜ all’interno di licei occupati, in strada o sui palchi, con il megafono in mano a farsi portavoce delle nostre battaglie.

E chiunque scenda in piazza con una comunità che sceglie come proprio portavoce un abuser,che nega e insabbia le violenze, deve sapere di star facendo una scelta politica e di starsi posizionando dal lato di chi nega le violenze. 

 

Ci hanno accusate di voler indebolire la lotta nominando la violenza, ma a indebolire qualsiasi lotta sono le comunità violente che nascondono la violenza, minacciando, infantilizzando e sminuendo lɜ compagnɜ.

 

Non abbiamo bisogno di posizioni ambigue o neutre, non ci servono spazi violenti e macisti: vogliamo essere liber3 di attraversarli e alzeremo la voce per farlo.

 

DI UOMINI CHE STUPRANO E NON-COMUNITA’ CHE PROTEGGONO

Volete estirpare la violenza di genere? Iniziate dai vostri collettivi 

Dopo l’ennesima denuncia da parte di una compagna che ha subito violenza di genere da parte di un uomo del CUA (collettivo universitario autonomo) è arrivato il momento di rompere il muro di omertà su chi da anni è artefice o complice della violenza agita da parte di “compagni” all’interno dei collettivi di Bologna. Con questa azione facciamo esplicitamente riferimento al CUA, stanch3 della loro retorica ipocrita, che si fa vanto di portare avanti la lotta transfemminista, appropriandosene – proprio come fanno le istituzioni – ma che non fa nulla per dare concretezza a un lavoro di reale decostruzione e di indagine sul perché, da troppo tempo ormai, ci siano così tanti casi di violenza all’interno dei suoi spazi. La violenza agita non solo non viene riconosciuta, ma la comunità attorno protegge chi stupra e lo tiene al suo interno, ed è disposta a tutto per  difenderlo purché non venga infangato il nome del collettivo. 

Si continua a coprire chi agisce violenza mentre si usano le nostre istanze per ripulirsi l’immagine, ad esempio sfruttando date come il 25 novembre e l’8 marzo e svuotando di significato le nostre parole e i nostri slogan.

Questa appropriazione non ci è nuova. Come Stato e Polizia usano e strumentalizzano le nostre parole, allo stesso modo voi del CUA, che tanto vi proclamate antagonisti, non fate altro che reiterare le stesse modalità di oppressione.

Non siete un presidio di opposizione all’università, ne siete solo il riflesso.

Al di fuori delle date comandate, gli stessi compagni che millantano di essere transfemministi, non si fanno scrupoli a cacciare  lɜ compagnɜ che chiedono di intraprendere percorsi di autocoscienza e consapevolezza rispetto alle molestie agite, che chiedono di allontanare chi violenta, di denunciare chi da anni costruisce la propria insulsa immagine di “compagno di movimento” sulla pelle delle survivor.

Oggi, 25 novembre, non possiamo restare zitt3 di fronte all’ennesimo caso di violenza subita e rimasta taciuta dentro al CUA, che non tarderà a presentarsi nelle piazze in cui si denuncia la violenza che donne, trans* e soggettività queer subiscono quotidianamente. Una pantomima grottesca che vogliamo venga smascherata e riconosciuta, perché siamo stanch3 di abbassare la testa di fronte agli stupratori, per dire che sì, chi violenta abita in primis i nostri spazi, spazi che vogliamo safer.  Vogliamo mandare un messaggio chiaro: chi agisce violenza di genere, chi stupra e i loro complici, non devono attraversare le nostre piazze e pretendiamo che i collettivi smettano di coprire chi continua ad agire violenza al proprio interno. 

Non sono l3 compagn3 che svelano la violenza a dover avere paura o a sentirsi in colpa, non sono loro a dover rinunciare agli spazi di azione politica. 

Vogliamo che gli abuser rimangano nei loro covi, che siano loro ad avere il terrore di attraversare le nostre strade, i nostri luoghi, le nostre manifestazioni, perché sappiamo chi siete. Voi vi chiamate compagni, noi vi chiamiamo uomini che stuprano e ”NON-comunità” che protegge.

Vi stiamo venendo a cercare. Qualunque sia il collettivo che vi  copre, non siete al sicuro.